Il ritiro fuori dal ritiro
Ci sono due notizie, una buona e una cattiva. La cattiva è che non c’è via di scampo. La buona è che non dovete per forza credere a quella cattiva.
Il silenzio non comincia fino a quando non comincia ufficialmente il ritiro, vale a dire nel pomeriggio. Fino a quel momento abbiamo libertà di fare quello che ci pare: in pratica questo significa cercare di infilare più parole possibili durante il pranzo. Il cosa passa in secondo piano; l’importante è sfruttare questo momento.
Qualcuno ogni tanto chiede perché il silenzio in un ritiro. Vi sveliamo un segreto: in realtà il silenzio non è fondamentale. Così come non sono fondamentali le altre norme che di solito vengono impartite a inizio ritiro: astenersi dall’usare il telefono o altri dispositivi elettronici, dal consumare sostanze psicoattive, dall’avere rapporti sessuali. Non sono nemmeno norme nel senso stretto del termine, perché non vengono fatte rispettare in maniera ferrea. Nessuno verrà a controllare cosa fate in camera, si dice spesso. Nessuno vi romperà il telefono sotto il piede o vi farà cadere con uno schiaffo il bicchiere di vino. Nessuno vi taglierà a metà quella sigaretta. Sì, il silenzio viene rispettato durante le pratiche e di solito durante i pasti non vedrete nessuno aprire bocca. “Di solito”, perché qualcuno che parla durante i pasti c’è sempre. Per non parlare dei momenti liberi prima e dopo i pasti. Però, di nuovo, non c’è un divieto assoluto di certi comportamenti. Solo raccomandazioni, consigli: se potete, astenetevi dall’indulgere in certe pratiche. Perché, vedete, il punto non è che queste pratiche sono immorali, illecite o “sbagliate”. Il punto è che sono distrazioni; peggio, sono fonti e conseguenze di distrazioni. Causa ed effetto al tempo stesso. Distrazioni dall’attenzione che in un ritiro dovrebbe essere rivolta a se stessi e ai propri automatismi, agli schemi abituali con cui interpretiamo e ci relazioniamo con il mondo.
Nessuno verrà a controllare cosa fate in camera, nessuno vi colpirà con un bastone di bambù se vi fate scappare qualche parola. Il punto della questione, durante un ritiro, non è sforzarsi di non lasciarsi andare a certi comportamenti, ma di esserne consapevoli. Che è poi quello che si fa durante la pratica formale: non rigettare le distrazioni, cerca di esserne consapevole. Ed esserne consapevole vuol dire né più né meno vedere e sentire ciò che c’è per tutta la durata. Il peso della sigaretta tra le dita, il suono dell’accendino che emana la scintilla, l’aroma del vino. Esserne consapevoli sul serio, per istanti che sembrano ore. Messa giù così sembra quasi una di quelle frasi motivazionali che fanno il giro dei social. Provate a sperimentarlo al secondo giorno di ritiro, quando tutto ciò che avete tenuto alla larga durante il sonno si ripresenta appena aprite gli occhi e non vi serve nemmeno più il cellulare, c’è la vostra mente a ripetere in loop una singola strofa di una canzone, qualsiasi cosa pur di non rimanere su ciò che emerge.
Questa sul silenzio era una premessa necessaria, perché la seconda domanda che ci si fa di solito, tanto tra praticanti quanto tra esterni, è perché un ritiro. Che si declina in due domande: primo, cosa succede a un ritiro; secondo, cosa si fa una volta finito?
Cosa succede a un ritiro è difficile dirlo in maniera univoca, perché ognuno ha la propria esperienza personale. Ciò che vivo io è diverso da ciò che vivete voi. Magari per voi le pratiche formali (la meditazione seduta, la camminata, focalizzarsi sui suoni) sono acqua fresca, vi toccano appena, e poi crollate durante i pasti, perché vorreste parlare con una persona ma, ecco, ci sarebbe questa regola del silenzio. Magari passate tranquilli i primi giorni e l'ultima mattina, prima della conclusione, viene fuori tutto quello che non è venuto fuori prima. Ecco, parlando in generale, a un ritiro di solito vengono fuori i propri schemi, la propria modalità automatica, con tutte le difficoltà e i problemi che questo ci causa e che sono, con ogni probabilità, uno dei motivi per cui avete deciso di avvicinarvi alla mindfulness. A un ritiro siete voi e gli automatismi di cui si diceva prima, senza vie di fuga se non una fuga letterale, un fare su le valigie e tornarsene a casa.
Per cui, una volta finito il ritiro, cosa si fa? Una volta che avete sperimentato quanto inconsistenti sono questi automatismi e le storie che vi raccontate, dopo che avete finalmente visto un'alternativa, dopo che avete pianto, riso, abbracciato, dopo che magari avete respirato di pancia per la prima volta nella vostra vita... dopo tutto questo, cosa si fa? Perché tornare alla vita quotidiana dopo un ritiro è, senza tanti giri di parole, una vera merda. Perché un ritiro può essere difficile, ma la routine è peggio. La routine dei propri pensieri e schemi, che ricominciano non appena si entra in casa. Siete al sicuro, in un ritiro, siete con persone che condividono almeno in parte il vostro percorso e sanno, come voi, che là fuori è uno schifo. Che fare?
Ecco un altro segreto (e poi basta, ché se no vi abituate troppo bene): il ritiro è una palestra, un allenamento per tutto ciò che, in mancanza di termini migliori, definiamo la vita reale. E proprio come in un allenamento più convenzionale, tutte le pratiche e i progressi fatti sono inutili se poi ve li dimenticate una volta fuori. What's the use of all those push-ups if you can't even lift a bloody log? A che vi servono tutte quelle flessioni se poi non riuscite nemmeno a sollevare uno stupido ciocco? Non pensate che sia facile. L'abbiamo detto che là fuori è uno schifo, e ripiombare nei soliti schemi è fin troppo semplice. Succederà, più volte anche, perché la vita è un viaggio e non c'è un punto da raggiungere oltre il quale sarà tutto risolto e starete bene per sempre. Ci ricascherete, ma saprete anche che non è scritto da nessuna parte che dobbiate farlo. Saprete che c'è un'alternativa, che non dovete per forza credere alla cattiva notizia. Per cui, ecco cosa si fa: si porta il ritiro fuori dal ritiro, l'allenamento fuori dalla palestra. La consapevolezza nella vita quotidiana.
Davide Tessitore
Ci sono due notizie, una buona e una cattiva. La cattiva è che non c’è via di scampo. La buona è che non dovete per forza credere a quella cattiva.
Il silenzio non comincia fino a quando non comincia ufficialmente il ritiro, vale a dire nel pomeriggio. Fino a quel momento abbiamo libertà di fare quello che ci pare: in pratica questo significa cercare di infilare più parole possibili durante il pranzo. Il cosa passa in secondo piano; l’importante è sfruttare questo momento.
Qualcuno ogni tanto chiede perché il silenzio in un ritiro. Vi sveliamo un segreto: in realtà il silenzio non è fondamentale. Così come non sono fondamentali le altre norme che di solito vengono impartite a inizio ritiro: astenersi dall’usare il telefono o altri dispositivi elettronici, dal consumare sostanze psicoattive, dall’avere rapporti sessuali. Non sono nemmeno norme nel senso stretto del termine, perché non vengono fatte rispettare in maniera ferrea. Nessuno verrà a controllare cosa fate in camera, si dice spesso. Nessuno vi romperà il telefono sotto il piede o vi farà cadere con uno schiaffo il bicchiere di vino. Nessuno vi taglierà a metà quella sigaretta. Sì, il silenzio viene rispettato durante le pratiche e di solito durante i pasti non vedrete nessuno aprire bocca. “Di solito”, perché qualcuno che parla durante i pasti c’è sempre. Per non parlare dei momenti liberi prima e dopo i pasti. Però, di nuovo, non c’è un divieto assoluto di certi comportamenti. Solo raccomandazioni, consigli: se potete, astenetevi dall’indulgere in certe pratiche. Perché, vedete, il punto non è che queste pratiche sono immorali, illecite o “sbagliate”. Il punto è che sono distrazioni; peggio, sono fonti e conseguenze di distrazioni. Causa ed effetto al tempo stesso. Distrazioni dall’attenzione che in un ritiro dovrebbe essere rivolta a se stessi e ai propri automatismi, agli schemi abituali con cui interpretiamo e ci relazioniamo con il mondo.
Nessuno verrà a controllare cosa fate in camera, nessuno vi colpirà con un bastone di bambù se vi fate scappare qualche parola. Il punto della questione, durante un ritiro, non è sforzarsi di non lasciarsi andare a certi comportamenti, ma di esserne consapevoli. Che è poi quello che si fa durante la pratica formale: non rigettare le distrazioni, cerca di esserne consapevole. Ed esserne consapevole vuol dire né più né meno vedere e sentire ciò che c’è per tutta la durata. Il peso della sigaretta tra le dita, il suono dell’accendino che emana la scintilla, l’aroma del vino. Esserne consapevoli sul serio, per istanti che sembrano ore. Messa giù così sembra quasi una di quelle frasi motivazionali che fanno il giro dei social. Provate a sperimentarlo al secondo giorno di ritiro, quando tutto ciò che avete tenuto alla larga durante il sonno si ripresenta appena aprite gli occhi e non vi serve nemmeno più il cellulare, c’è la vostra mente a ripetere in loop una singola strofa di una canzone, qualsiasi cosa pur di non rimanere su ciò che emerge.
Questa sul silenzio era una premessa necessaria, perché la seconda domanda che ci si fa di solito, tanto tra praticanti quanto tra esterni, è perché un ritiro. Che si declina in due domande: primo, cosa succede a un ritiro; secondo, cosa si fa una volta finito?
Cosa succede a un ritiro è difficile dirlo in maniera univoca, perché ognuno ha la propria esperienza personale. Ciò che vivo io è diverso da ciò che vivete voi. Magari per voi le pratiche formali (la meditazione seduta, la camminata, focalizzarsi sui suoni) sono acqua fresca, vi toccano appena, e poi crollate durante i pasti, perché vorreste parlare con una persona ma, ecco, ci sarebbe questa regola del silenzio. Magari passate tranquilli i primi giorni e l'ultima mattina, prima della conclusione, viene fuori tutto quello che non è venuto fuori prima. Ecco, parlando in generale, a un ritiro di solito vengono fuori i propri schemi, la propria modalità automatica, con tutte le difficoltà e i problemi che questo ci causa e che sono, con ogni probabilità, uno dei motivi per cui avete deciso di avvicinarvi alla mindfulness. A un ritiro siete voi e gli automatismi di cui si diceva prima, senza vie di fuga se non una fuga letterale, un fare su le valigie e tornarsene a casa.
Per cui, una volta finito il ritiro, cosa si fa? Una volta che avete sperimentato quanto inconsistenti sono questi automatismi e le storie che vi raccontate, dopo che avete finalmente visto un'alternativa, dopo che avete pianto, riso, abbracciato, dopo che magari avete respirato di pancia per la prima volta nella vostra vita... dopo tutto questo, cosa si fa? Perché tornare alla vita quotidiana dopo un ritiro è, senza tanti giri di parole, una vera merda. Perché un ritiro può essere difficile, ma la routine è peggio. La routine dei propri pensieri e schemi, che ricominciano non appena si entra in casa. Siete al sicuro, in un ritiro, siete con persone che condividono almeno in parte il vostro percorso e sanno, come voi, che là fuori è uno schifo. Che fare?
Ecco un altro segreto (e poi basta, ché se no vi abituate troppo bene): il ritiro è una palestra, un allenamento per tutto ciò che, in mancanza di termini migliori, definiamo la vita reale. E proprio come in un allenamento più convenzionale, tutte le pratiche e i progressi fatti sono inutili se poi ve li dimenticate una volta fuori. What's the use of all those push-ups if you can't even lift a bloody log? A che vi servono tutte quelle flessioni se poi non riuscite nemmeno a sollevare uno stupido ciocco? Non pensate che sia facile. L'abbiamo detto che là fuori è uno schifo, e ripiombare nei soliti schemi è fin troppo semplice. Succederà, più volte anche, perché la vita è un viaggio e non c'è un punto da raggiungere oltre il quale sarà tutto risolto e starete bene per sempre. Ci ricascherete, ma saprete anche che non è scritto da nessuna parte che dobbiate farlo. Saprete che c'è un'alternativa, che non dovete per forza credere alla cattiva notizia. Per cui, ecco cosa si fa: si porta il ritiro fuori dal ritiro, l'allenamento fuori dalla palestra. La consapevolezza nella vita quotidiana.
Davide Tessitore